lunedì 29 ottobre 2007

"Lettera agli spettatori" (2007), di Autori Vari


La Festa del Cinema di Roma si è chiusa sabato mattina, con la premiazione dei film elencati da Nick-cola ma anche con un piccolo evento importante: la proiezione di un filmato di sei minuti e spiccioli che costituisce una risposta cortese ma ferma alla cattiva stampa che il cinema italiano continua ad avere. Trovate il link in fondo al post quindi, se volete, potete saltare direttamente questa piccola premessa.

Io bazzico questo gruppo ormai da dieci anni, e mi sono fatto la fama di quello che difende il cinema italiano ad ogni costo. Chi legge i miei post sa che non è vero: che se qualcosa non mi piace non ho problemi a dirlo, ma che mi dà fastidio l'attacco pregiudiziale. Le sciocchezze di quelli che, seguendo una propaganda troppo diffusa per essere casuale, lamentano che il cinema italiano sia solo un magna magna di clientelismi, di assistenzialismo vuoto, di mantenuti di stato.

Credo che nessuna persona sensata possa credere davvero una cosa simile, ma il più delle volte è questione di disinformazione più che di mancanza di intelligenza. E' per questo che da un annetto, di fronte ad anni e anni di diffamazione sistematica da parte di ignoranti e portatori di malafede, ha cominciato a coagularsi un'iniziativa che mi sembra animata più da un legittimo bisogno di autodifesa che da spirito rivoluzionario. Un gruppo di persone che vogliono cominciare a mettere qualche puntino sulle i, e magari cominciare a fare un po' la guardia a politici che dicono dicono e di rado fanno davvero qualcosa di concreto.

Si chiamano "Centoautori" e sono partiti in sordina, alla Libreria del Cinema fondata qualche anno fa da Giuseppe Piccioni e da alcuni altri cineasti o appassionati o studiosi (a memoria: Ludovico Einaudi, Jasmine Trinca, Domenico Procacci, Flavio De Bernardinis e altri). Poi hanno cominciato a crescere, diventando un movimento, riscoprendo il valore della collaborazione, del dialogo fra colleghi, dell'azione di gruppo. E senza la colorazione politica di entità come, ad esempio, l'ANAC (Associazione Nazionale Autori Cinematografici). Hanno anche un sito: http://www.100autori.it.

Qualche tempo fa, in una serata condotta da Iacona e trasmessa da Raitre, un po' di nodi sono venuti al pettine della prima serata televisiva. Se ne parlò su un thread lanciato da uno degli sporadici, ma sempre illuminanti, post di Ernesto Gastaldi (uno dei grandi sceneggiatori di quando c'era ancora una industria del cinema italiano) e che potete recuperare qui. Ricordo che quella sera Piccioni aveva, con accorata cortesia, fatto notare che Rutelli non aveva dato gran seguito alle vaghe promesse di impegno del governo per raddrizzare un po' di storture nella nostra industria cinematografica.

Sono passati due mesi, e non si sono viste grandi novità, così i Cento Autori hanno realizzato un video che suggerisco a tutti di vedere. Merita, e potrebbe cominciare a rettificare un po' di cretinate che si continuano a sentire in giro.

Qui sul gruppo stiamo spesso a fare i confronti fra l'industria del cinema italiano, ridotta a poca cosa, e a quella del cinema francese, che ha ricominciato da tempo a imporre nel mondo prodotti commerciali di ottima qualità. Sono i frutti di due politiche completamente diverse: filotelevisiva da noi, non filotelevisiva oltre le Alpi. E non è solo una questione di cultura: è anche una questione di denari, perché un cinema in buona salute come quello francese è un moltiplicatore di denaro. Oltre che di cultura.

Il video è questo. Poi, se mai, ne parliamo.

domenica 28 ottobre 2007

"The King of Kong: A Fistful of Quarters" (2007) di Seth Gordon

Perché ancora oggi ci ricordiamo chi era il Barone Rosso? Perché è l'aviatore che, nel corso della prima guerra mondiale, riuscì a buttare giù da solo più nemici di chiunque altro. 86 aerei abbattuti, un numero incredibile, soprattutto se si pensa che il secondo in classifica ne aveva totalizzati poco più di venti.

Relata refero: sono in treno e non ho modo di controllare, ma più o meno sono questi i dati snocciolati da uno dei protagonisti di questo spassoso documentario, nel corso di una spericolata analogia. Il Barone Rosso era, all'epoca, il numero uno dell'aviazione teutonica per mira, riflessi, coordinamento fra corpo, mente e strumentazione. Più o meno come il campione mondiale di Donkey Kong.

Chi ha all'incirca quarant'anni, Donkey Kong lo ricorda sicuramente: grossomodo coevo del più celebre Pac-Man, era quel videogioco in cui un omarino baffuto deve arrampicarsi su per complicate strutture per salvare la sua ragazza da un gorilla che l'ha rapita - schivando, nel contempo, i barili che lo scimmione gli lancia addosso dalla vetta, ma anche superando altre insidie come le palle di fuoco, le molle rimbalzanti e gli ascensori. Quelli della mia generazione ci hanno giocato un po' tutti: i videogiocatori successivi lo hanno conosciuto soprattutto nelle incarnazioni e varianti successive, quando l'omarino baffuto è stato battezzato Super Mario e dotato di un fratello (Luigi), creando la coppia dei Super Mario Bros. - portata addirittura sullo schermo in uno dei primi, famigerati, adattamenti per il cinema di videogiochi di successo.

Per la maggior parte di noi, l'era dei videogiochi da "arcade" ha poi lasciato spazio ad altri passatempi, per molti è andata ad arricchire il patrimonio di memorie nostalgiche dell'adolescenza. Per qualcuno, però, Donkey Kong è rimasto un'attività divorante, un'ossessione, un motivo di vita e di affermazione personale. Esistono persone che posseggono, nel loro garage, le pesanti cabine originali, rilevate dalle sale giochi e mantenute amorosamente in funzione per due decenni. Persone che ancora oggi sono capaci di giocare per ore, all'inseguimento della "partita perfetta", quella in cui riesci a saltare tutti i barili, a spegnere a martellate tutte le palle di fuoco, a prendere tutti gli ascensori e arrivare al ventiquattresimo, impossibile, schermo del gioco, il cosiddetto KILL SCREEN, quello in cui la memoria del computer non basta più a gestire il gioco e l'omarino baffuto perde, automaticamente, una vita dopo pochi secondi, qualsiasi cosa stia facendo, anche senza barili nei paraggi.

C'è gente che da un quarto di secolo tiene in piedi un'organizzazione per consentire i campionati di Donkey Kong, c'è chi passa ore e ore a guardare vhs su cui videogiocatori di tutti gli Stati Uniti hanno registrato le riprese delle loro partite, per controllare che non ci siano trucchi e, nel caso, convalidare i record che i proponenti sostengono di aver conseguito. E c'è chi sulla propria posizione di campione rimasto imbattuto per vent'anni ha costruito la sua vita e il suo successo personale, e anche un codazzo di fedeli accoliti disposti a tutto per poter toccare al maestro il lembo del mantello.

"The King of Kong: A Fistful of Quarters" è la storia di questo super campione, e di uno sfidante timido che tenta di battere il suo record di ottocentomila punti e rotti - non tanto per il gusto di sconfiggere la persona, quanto per dimostrare a se stesso di poter essere primo in qualcosa, dopo aver fallito come musicista, come giocatore di baseball e di basket e come imprenditore. La riuscita e il fallimento della propria vita, dopotutto, è in una certa misura una questione personale, e se non si è ottenuto il successo nei campi in cui si misura la gente normale, tutto sommato, non si vede perché non si dovrebbe poterlo fare cercando di salvare una ragazza di pixel da un gorilla di pixel, saltando migliaia di barili fatti di pixel.

Ci sono di mezzo questioni di regole: un record documentato da un video vale come un record conseguito in pubblico, durante un torneo? Le macchine sono tutte uguali o ce ne sono alcune su cui è più o meno facile giocare? Non è che si possono taroccare i software? E' lecito imprecare durante la partita?

E poi ci sono questioni più profonde: la paura e il desiderio del confronto, il potere delle amicizie, della popolarità, del denaro, di un titolo acquisito, il bisogno di dimostrare qualcosa a chi ti sta intorno perché questo significa dimostrarlo a se stessi. Oltre alle antiche considerazioni che solo chi ha videogiocato a lungo può forse davvero capire: l'ossessione della sfida, l'alienazione che si cura e si alimenta allo stesso tempo, la semplificazione elettronica di tensioni che nella vita non si presentano mai in schermi ripetitivi, l'ipnotico sprofondare in ragionamenti che dopo un po' cominciano a svilupparsi secondo le logiche del gioco.

C'è tutto questo e molto altro, in questo film, che riesce a far ridere senza diventare irridente, senza pretendere di giudicare un gruppo di "white and nerdy" che hanno trovato una loro ragione di vita in una disciplina che forse nessuno si sarebbe mai aspettato. E' al tempo stesso una parodia dei documentari d'inchiesta e un'inchiesta vera e propria, avvincente, coinvolgente e, nei suoi 79 minuti, assolutamente impeccabile. Se avete avuto vent'anni negli anni Ottanta, è roba da non perdere: ma lo è anche se avete qualche passione che monopolizza una buona parte del vostro tempo libero e che a volte diventa per voi più maledettamente seria di quanto non meriterebbe. Come ad esempio scrivere su un newsgroup.

Roma, Festa del cinema, 25 ottobre 2007


Il trailer del film su YouTube